Portare i lettori dentro la Storia. Intervista a Franco A. Grego


Portare i lettori dentro la Storia.
Intervista a Franco A. Grego

gen 27, 2015

Quando è nata l’idea di realizzare Auschwitz, una storia di vento?
L’idea è nata un paio di anni fa, quando mia moglie e io abbiamo portato i nostri bambini, due gemelli di nove anni, a visitare la casa-museo di Anne Frank ad Amsterdam. Benché li avessimo in qualche modo preparati, raccontando loro la storia di Anne e della persecuzione degli ebrei, rimasero molto turbati. Non riuscivano a immaginare che proprio come Anne Frank tanti bambini fossero stati costretti a nascondersi, avessero patito il freddo e la fame, la separazione dai genitori, e infine fossero morti in posti chiamati «campi di sterminio». Hanno cominciato a rivolgerci domande molto semplici, a cui però era difficile rispondere. Così abbiamo cercato di spiegare Auschwitz ai nostri figli, e non è stato facile, perché Auschwitz, come scriveva Hannah Arendt, è «qualcosa che noi tutti non siamo preparati a comprendere». L’idea della app è nata da questa esperienza: cercare di raccontare l’Olocausto ai bambini.

Quali sono state le fonti di ispirazione più significative per te?
Mi ha colpito un articolo apparso un anno fa su «la Repubblica» dello scrittore israeliano Aharon Appelfeld, sopravvissuto all’Olocausto. Nell’articolo Appelfeld parlava della testimonianza dei bambini rinchiusi nei campi, una testimonianza che gli adulti hanno spesso considerato una fantasia, qualcosa che riduceva la gravità dell’argomento. L’estate scorsa, vedendo i disegni dei bambini conservati al museo del campo di Theresienstadt, ho capito che cosa intendeva Appelfeld quanto parlava di «memoria riorganizzata»: i rastrellamenti, le violenze quotidiane, i vagoni piombati, la vita nel campo… ogni cosa, nei disegni di quei bambini, era colta attraverso uno sguardo che era senz’altro diverso, filtrato dalla fantasia, ma sapeva restituire tutta la sofferenza.
Coloro che erano bambini al tempo dell’Olocausto sono oggi gli ultimi testimoni dello sterminio.
Sì, e quando saranno scomparsi avremo una «memoria senza testimoni», dunque una memoria contestabile, che darà ai negazionisti, ai revisionisti, un’altra opportunità di negare, o di ridimensionare e relativizzare la tragedia dell’Olocausto. È a tale proposito che Annette Wieworka parla di «dovere della memoria». A questo, però, penso debba accompagnarsi quello che Georges Bensoussan chiama il «dovere di Storia», l’obbligo cioè di studiare, capire, di spiegare soprattutto ai ragazzi come sia stato possibile lo sterminio di sei milioni di ebrei. E di ricordare quanto scrisse Primo Levi ne I sommersi e i salvati: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo». A quasi trent’anni di distanza queste parole ci sconcertano, se pensiamo a quanto sta avvenendo oggi in Europa, dove si moltiplicano i movimenti di estrema destra populisti e xenofobi e si sta diffondendo un antisemitismo davvero preoccupante.

Come hai lavorato all’ideazione e alla realizzazione della app?
Pur trattandosi di un racconto di finzione, ho cercato di fare in modo che ogni particolare del testo e delle illustrazioni trovasse riscontro nella realtà storica dei campi, ma ho cercato anche di non essere didascalico. Da questo punto di vista, più che le memorie e testimonianze, una letteratura nei confronti della quale ho sempre nutrito un grande interesse, mi hanno aiutato le foto e soprattutto i film. Non a caso le illustrazioni hanno un taglio molto cinematografico ed è per questo che abbiamo scelto un formato orizzontale.

Quali difficoltà hai incontrato?
La difficoltà principale è stata trovare il registro giusto. Volevo se possibile evitare ogni retorica. Ho scritto un testo e ho pensato a uno storyboard che fossero semplici, delicati ma al tempo stesso toccanti, che evitassero di calcare la mano sulla tragicità, sull’orrore. Ho immaginato due bambini che cercano in qualche modo di difendersi dalla paura e trovano rifugio nel loro vissuto familiare ed emotivo, nel linguaggio della fiaba, nei ricordi di un «prima» che non c’è più. Da qui il loro sguardo fantastico, a tratti magico, che trasfigura la realtà del campo. Poi lo straordinario e paziente lavoro di Giulia sulle illustrazioni ha contribuito moltissimo a mantenere questo registro. Come pure la colonna sonora di Giovanna e Leo, un contributo davvero prezioso.

La app è dedicata ai tuoi bambini. Li hai consultati durante il lavoro? Come hanno reagito quando l’hanno vista per la prima volta?
No, non li ho consultati. Certo, sapevano a che cosa stavo lavorando, ma ho evitato di coinvolgerli. Quando l’hanno vista per la prima volta sono stati attratti, ovviamente, dall’interattività, dal fatto cioè di far succedere delle cose. Poi però si sono concentrati sul racconto, hanno imparato ad ascoltare e ad aspettare, a cogliere la relazione fra il testo, la voce narrante, la colonna sonora, le animazioni e le illustrazioni. Erano emozionati, o almeno così mi è sembrato (ride, n.d.r.). Poi naturalmente sono arrivate le domande: perché in quella stanza ci sono così tante scarpe? Perché tutte quelle valigie? Perché in quella strada le persone con la stella gialla scompaiono? Cos’è quel posto tutto buio?…

Che pubblico immagini per questa app?
Raccontare l’Olocausto ai bambini spetta ai genitori e agli insegnanti. Questa app, non so se è il caso di ricordarlo, non è un gioco. La presenza di un adulto che spiega, integra, rassicura mi sembra più che altro un’assunzione di responsabilità. Per questo al racconto abbiamo affiancato dei contenuti extra: una cronologia dell’Olocausto, delle mappe, una breve bibliografia ordinata per temi e un elenco di film e documentari. Per contestualizzare, aiutare a capire.

Quali sono i vantaggi del digitale per raccontare una storia di questo genere?
Il digitale presenta delle opportunità straordinarie. Un libro interattivo in cui parole, illustrazioni, voci, musiche, animazioni si fondono insieme, porta davvero il lettore dentro la storia, offrendogli un’incredibile varietà di stimoli e di esperienze sotto il profilo emotivo e cognitivo. A patto però che tutto sia al servizio del racconto. Nel caso della nostra app, per esempio, le musiche non sono un semplice jingle che fa da sfondo al testo, ma sono parte integrante della narrazione, ne seguono il tono e il ritmo. Allo stesso modo, le interattività come le animazioni non sono fini a se stesse ma, crediamo, funzionali alla storia che volevamo raccontare. Non abbiamo cercato di stupire con effetti speciali, ma di aggiungere emozione. Se ci siamo riusciti, lo diranno i lettori.

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